Finalmente Google Bard è arrivato in Italia.

Potremo tornare a lavorare (anche) per il nostro datore di servizi preferito e la vocazione oligopolistica dei dispositivi della cosiddetta intelligenza artificiale sarà pienamente confermata; la nostra dipendenza dalla disruption tecno-liberista è di nuovo pienamente garantita, che sollievo!

Anziché preoccuparsi della dimensione sociale, etica, economica e geopolitica dell’innovazione, i nostri intellettuali laureati potranno dedicarsi con serenità a ricamare sul confronto tra i modelli linguistici sottesi a Bard (chiamiamolo confidenzialmente così da subito, suvvia! è anche suggestivo) e a ChatGPT, a cui da mesi è stata ridotta la discussione sull’AI. E a cantare e controcantare la virtù delle domande intelligenti, del confronto tra le risposte, dell’approfondimento del dialogo mediante la smart chat.

Per non citare la bufala del blocco da parte del Garante, mai avvenuto: era infatti il chatbot ad essere impostato per respingere gli utenti provenienti “tecnicamente” dall’Italia, in attesa degli accomodamenti resi necessari dalle osservazioni ricevute. Bastava una semplice VPN per accedere, mentre per gustare il rivale era necessario invece impostare – sempre con una virtual private network – l’uscita simulata dagli USA, dall’Australia e così via, fino al Regno Unito.

Proprio così: tra gli utenti erano ammessi da mesi i britannici, perché non pù comunitari. Del resto, il nuovo feudatario della conoscenza è molto chiaro e trasparente: le sue indicazioni sulla privacy e sulla protezione dei dati personali ci avvertono infatti – tra le altre cose – che per il suo uso sono necessari 18 anni e che “All’interno dello Spazio economico europeo e in Svizzera, Bard è fornito da Google Ireland Limited; in tutti gli altri casi, Bard è fornito da Google LLC (ciascuno indicato come Google, a seconda dei casi)“. Inoltre, se al trattamento delle informazioni dell’utente è applicabile la legge sulla protezione dei dati dell’Unione Europea (UE) o del Regno Unito (UK), lo stesso è invitato a un attenta lettura delle basi giuridiche secondo cui esse vengono trattate da Google.

Il residuo ottimismo ci spinge a pensare che – per una volta – siamo di fronte a un dispositivo digitale a vocazione estrattiva e imperiale che deve fare i conti con una normativa pre-esistente, che gli impedisce di istituire un futuro antropologico, culturale e cognitivo soltanto sulla base dei propri brevetti e, pertanto, del proprio scopo strategico: il profitto.

In troppi casi precedenti, infatti, sono state leggi e regole a dover rincorrere un agire privo di vincoli e di controlli.

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