Le “disintegra ghetto” sono le radiolone portatili anni ’80: animavano le periferie povere delle città con musica ad alto volume. Insomma, spaccavano il ghetto sia con le onde sonore sia metaforicamente, regalando danze, momenti di aggregazione e felicità.

Aggregazione e felicità. Vediamo un po’.

I pochi studenti che vengono a scuola in presenza nelle zone rosse sono per lo più ragazz* con BES, categoria lontana dall’essere definita in modo preciso e che comunque per alcuni certifica una colpa, per altri una “grana”, da affrontare con il minimo di autoresponsabilizzazione.

Magari abbinati a compagni “normodotati”, per non farli sentire troppo sol* o, peggio, strumentalizzati, pretesto per tenere aperto l’edificio scolastico sfruttando i “fatti salvo” previsti della normativa.

Con gli/le altr* studenti (quell* “normali”, che sono ai domiciliari) la lezione è trasmessa da scuola a casa – e forse anche viceversa.

Non vorremmo davvero che accadesse troppo spesso che – come permettono per esempio gli organici degli istituti tecnici – il prof di teoria facesse appunto “teoria” con “quelli bravi” e il prof di laboratorio stesse invece con “quelli problematici”, ovviamente distanziati di due metri come prevedono le nuove linee guida dell’ISS per la scuola.

Oppure che, come possibile un po’ dappertutto, un gruppo selezionato stesse a scuola con i soli insegnanti di sostegno, per… seguire le lezioni erogate a distanza, in una triangolazione di accessi e relazioni umane davvero kafkiana, certo non frutto di progettazione didattica a intenzione inclusiva e flessibile.

L’impressione sarebbe quella della assegnazione di turni di presenza. L’olezzo quello, appunto, della ghettizzazione.

Paradossale: pensando in qualche caso di fare del bene, applicando in tutti i casi norme e cavilli in perfetto stile da azzeccagarbugli manzoniano, stiamo insomma rischiando di avvilire i/le ragazz* in presenza: non basta stare in 3 o 4 in un’aula semivuota per sentirsi ben accolt*. Anzi.

O evitiamo la carnevalata di 4 allievi per classe o dobbiamo scatenarci e fare appello e ricorso al Ghetto Blaster 2.0!

Può bastare davvero poco, infatti, una volta che se ne ha davvero intenzione, a trasformare la presenza di poch* sfortunat* a scuola in qualcosa di più motivante e aggregativo. In tutti i casi, possiamo almeno provarci.

Ci aiutano perfino le indicazioni del MIUR, che prevedono attività non soltanto di laboratorio, ma anche di inclusione e aggregazione. E perfino lo svolgimento di lezioni al parco, ai musei, ora chiusi, e così via.

Per esempio, possiamo collegarci con gli studenti a casa andando in cortile – è comunque Primavera! – e organizzando un po’ di eventi socratico-wifi.

Ma con le tecnologie digitali attuali – mobili e portatili – si può fare ben di più: organizzare lavori di gruppo, attività  dove chi è a scuola coordina i lavori dei suoi compagni a casa con un obiettivo di apprendimento e/o operativo condiviso e così via. E viceversa (davvero).

Etivity, web quest, storytelling, blogging e LAN party! Questi sintetici slogan fanno riferimento ad attività che possono essere davvero coinvolgenti, soprattutto se le spogliamo del loro alone di anglo-marketing da PTOF e le caliamo nella quotidianità.

Potremmo, per esempio, scrivere articoli su un blog lavorando per redazioni, i cui boss sono rigorosamente “quell* a scuola”.

Oppure fare delle ricerche in rete a squadre, guidate anch’esse da “quell* a scuola”, oppure ancora usare il videogioco Minecraft Education per giocare insieme, a squadre e a rotazione, con un obiettivo comune da perseguire.

O ancora, scegliere insieme un qualsiasi videogioco di rete per tutti; e un bel premio – video premiazione, buono libro e magari anche un bel voto – per chi vince la partita o il torneo.

Insieme, appunto: può giocare anche il prof di laboratorio. E perfino quello di teoria.

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