Lungi da noi – ma davvero parecchio – la visione secondo cui l’erogazione  telematica di istruzione emergenziale è un’opportunità da sfruttare.

Ci è ancora più estranea la prospettiva dell’innovazione fine a sé medesima, quella della competizione, dei concorsi di bellezza digitale che hanno funestato gli ultimi mesi dell’anno scolastico “regolare”.

Le pratiche di didattica a distanza forzata – quali che siano – per definizione sottraggono prossimità e impoveriscono relazioni; inoltre, poiché hanno costretto a far ricorso a risorse private, familiari, hanno ulteriormente aggravato le diseguaglianze cognitive e culturali determinate dalle condizioni socio-economiche; a confermarlo bastano i dati degli esclusi da ogni collegamento, su cui andrebbe fatto uno studio molto preciso e dettagliato e il cui “recupero” dovrebbe essere una priorità assoluta del sistema. Così come dovrebbero essere analizzati con precisione gli autentici effetti della distribuzione di dispositivi acquistati con fondi pubblici da parte delle scuole.

Via Cecchi, Torino

La chiusura degli edifici ha infatti significato l’interdizione degli spazi scolastici istituiti dalla Repubblica come territorio comune, paritario, partecipato, equo ed emancipante di istruzione pubblica.

Detto questo, lasciateci scadere in qualche provocazione.

Le classi-pollaio sono soltanto un problema per il prossimo probabile distanziamento sanitario o piuttosto una pesante testimonianza di incuria globale?

Le aule disadorne e cadenti, le palestre e i servizi inagibili, gli ascensori bloccati da tempo immemore, i pasti consumati secondo turni incalzanti, le manutenzioni rimandate a più riprese e così via sono fantasie corrosive del/la polemista di turno o realtà strutturali di una logistica dell’abbandono?

Ricordate Gavino Ledda? La scuola era per lui progresso personale netto. Un’aula pulita, un ambiente sano e riscaldato dove conoscere e praticare cultura, scienza e buone maniere. E quindi, per lui e per molti altri, l’occasione di modificare – consapevolmente – il destino previsto dal nativo modello di società patriarcale grazie all’impianto liberatorio dell’istruzione pubblica.

Più in generale, il passaggio dalla sacralità dello scriba alla sconfitta del millenario analfabetismo di massa è uno dei più grandi risultati della civiltà umana, uno dei pochi esiti di cui si può ancora compiacere una specie che ha messo in atto modalità di produzione, consumo e distribuzione della ricchezza fondate sulla visione della natura come bene privatizzabile e a buon mercato.

A volerlo ben vedere, però, questo meccanismo mostra la corda da tempo e l’emergenza in cui siamo tuttora immersi non può esimerci da fare una specifica riflessione, oltre a tutte le altre necessarie.

Si può davvero ritenere che si “apprenda” allo stesso modo e si possa mettere in atto la stessa concentrazione sia in un ambiente accogliente, pulito e ordinato sia in locali disordinati, trascurati e opprimenti?

Con Dschola e come formatori abbiamo avuto la fortuna di frequentare, in questi ultimi 20 anni, parecchie scuole, per corsi, seminari e anche per assistenza tecnica ai laboratori. E talvolta abbiamo visto aule anguste, muri solcati da profonde crepe, laboratori che sembravano discariche del materiale grigio: ci si stringeva davvero il cuore al pensiero che qualche fanciullo dovesse passare tutti i giorni metà della propria vita in tanto degrado. Poiché incontravamo però docenti pieni di entusiasmo nonostante tutto, non sapevamo trarre le giuste conclusioni. Ora quel lassismo autolesionistico sta mostrando però il conto: alcune scuole oggi sono obiettivamente insalubri, ma dobbiamo avere il coraggio professionale e civile di riconoscere che anche prima troppe erano poco più che discarica di arredi e raccolta di muffa.

Mica male… rinchiudiamoci i bambini per 8 ore al giorno e vedrai come crescono bene…

E che dire in particolare del feticcio e dell’oggetto di odio e amore di questi mesi: le tecnologie digitali? Ancora un paio di decenni fa le scuole esibivano con orgoglio laboratori con 20 personal computer collegati ad internet – alcune addirittura con la “banda larga” –, mentre le famiglie avevano al massimo un televisore e un hi-fi. Già in precedenza, alla fine dello scorso millennio, gli istituti in possesso di Olivetti M24, di PC IBM XT, ma anche di Commodore 64, permettevano di vedere, toccare e sperimentare oggetti ed esperienze che a casa erano impossibili, inconcepibili. La scuola era un’estensione quantitativa e qualitativa del mondo e della soggettività. Una priorità collettiva e culturale riconosciuta e indiscussa.

È purtroppo sotto gli occhi di tutti che oggi non è più così. Nella vita reale e a casa molti ragazzi entrano in rapporto con tecnologie sofisticate. che a scuola non soltanto non ci sono (i “laboratori informatici” sono spesso rimasti fermi agli anni 2000, con strumentazioni invecchiate, descritte per altro con un lessico rimasto significativamente approssimativo), ma che fino a ieri erano spesso bandite.

Old Technology

Di contro, la scuola è per molti solo un servizio, un babysitteraggio, fatto di panini imbottiti e di voucher culturali da consumare individualmente.

In generale, come abbiamo già detto, in un edificio scolastico attuale troppo è vecchio, troppo è scassato, troppa è la trascuratezza, in qualche caso perfino ostentata. E quindi grondano critiche, polemiche più o meno giustificate, delegittimazione, discredito. 

La domanda esplicita è: l’aggregazione certamente utile all’apprendimento può essere davvero indipendente dall’ambiente? Possiamo prenderci la responsabilità di tornare e di far tornare bimbi e ragazzi in posti orribili?  

In questi ultimi anni, si è molto discusso di ambienti di apprendimento, anche a livello internazionale. In alcuni Stati, anzi, l’edilizia scolastica ha saputo rinnovare soluzioni ed edifici, rendendoli più versatili e più generosi; è stata capace di superare davvero il concetto di aula-pollaio, integrandola anzi con un laboratorio e viceversa. Si sono immaginati con cura e realizzati con attenzione spazi di apprendimento destinati a lavori di singoli, di gruppi e plenari, dove le tecnologie potessero essere decisive, ma al tempo stesso calibrate, e dove applicare metodologie diverse, rispettando e potenziando la libertà di insegnamento. In Italia, l’approccio è stato diverso: ha cavalcato la polemica del peso degli zainetti, fino a ridursi ad asfittico esercizio autopromozionale. La maggior parte dei plessi scolastici è invece rimasta con un layout, con un “setting educativo” (termine abusato) e una struttura sempre meno adatti, non solo per la salute dei fanciulli, ma anche per l’apprendimento e l’aggregazione.

Ørestad Gymnasium di Copenaghen – Quando lo spazio insegna

Consideriamo, inoltre, che abbiamo ormai in tasca le informazioni e che esse sono anzi diventate troppe e aggressive, hanno trasformato la nostra attenzione in merce e i nostri dati in materia prima. I media si sono moltiplicati e vanno spavaldamente a caccia di utenti- consumatori. Oggi è davvero difficile rimanere analfabeti.

Non c’è più bisogno di entrare in monastero per accedere a una biblioteca, ma bisogna piuttosto imparare a difendersi dalla profilazione estrattiva praticata dai grandi player, quegli stessi che ora figurano come salvatori dell’istruzione e della cultura.

Gli aspetti addestrativi dell’imparare sono assolti dalla massa di tutorial, che da anni spopolano sul web. L’uso iperdiffuso dello smartphone ne fa da una parte un pedinatore digitale e una degradata agorà della confusione e della manipolazione, ma anche, dall’altra, una fonte di informale meticciato della conoscenza, in particolare linguistica. Perfino per chi approda in Europa con un barcone della disperazione e spesso sa leggere, scrivere e far di conto in 2 o 3 lingue diverse, conoscenze e competenze di base acquisite spesso proprio dagli smartphone più che a scuola, in Paesi dove paradossalmente il ruolo dell’istruzione è ancora davvero fondamentale per sollevarsi dall’ignoranza e dall’esclusione.

Scuola autocostruita in “terra cruda” a Gando Burkina Faso

E – vogliamo esser sinceri sinceri sinceri! – come hanno reagito all’espansione e alla pervasività della platform society molte, anzi troppe, scuole? Con un mix di paralisi, conservatorismo e specifica “fuffa” autoincensante, il che ha ulteriormente minato efficacia e credibilità dell’insieme del sistema di istruzione.

Troppo spesso, infatti, anche il tempo trascorso nella tanto – e in linea generale siamo d’accordo, sia chiaro – rimpianta scuola della prossimità era non disteso e rilassato, ma teso e sprecato, addirittura pericoloso, grazie anche alla trascuratezza complessiva che l’ha progressivamente corrosa.

È davvero allarmante, del resto, raccogliere alcune testimonianze – certamente individuali, fortemente contestualizzate e ovviamente non generalizzabili – a proposito dei bimbi e ragazzi che sono rimasti connessi con gli insegnanti, ove è stato possibile, e che negli ultimi due mesi sono però paradossalmente cresciuti in responsabilità, competenze e autonomia più in fretta che in molti anni di scuola, forse perché liberati da uno stato di eterna fanciullezza e di deresponsabilizzazione a cui li costringeva una condizione scolastica fondata sulla ricorsività dell’inerzia.

Detto in modo molto secco, non ci si può proporre di ripristinare la centralità delle cattedre, delle lavagne – poco importa se d’ardesia o multimediali e interattive – e delle file statiche di banchi in cui collocare bimbi e adolescenti, a cui è richiesta troppo spesso passiva immobilità, perché anche questa scelta configurerebbe uno spazio relazionale insano, tanto più se di nuovo in ambienti poco accoglienti e frettolosamente rimediati.

Per contrastare in modo efficace l’emergenza, perciò, bisogna senza alcun dubbio trovare quanti più spazi possibili adatti a far ritrovare le persone che partecipano ai processi di istruzione e di apprendimento, ma, per ricominciare davvero a essere spazio pubblico di garanzia culturale universale, la scuola deve essere considerata davvero e di nuovo una priorità – attenzione politica, investimenti, dibattito ampio e trasparente – e ne va affrontato con piena consapevolezza il decadimento globale, assolutamente precedente il lockdown pandemico. Con grande attenzione agli aspetti materiali della questione, considerate le loro implicazioni, davvero pervasive.

Se, infatti, una volta qualcuno lasciava la melma dell’aia per trascorrere qualche ora in un posto pulito e curato a respirare cultura, adesso qualcun altro rischia di uscire da case pervase da comfort, gadget e informazioni per passare ancora e di nuovo 6-8 ore al giorno in posti eccessivamente affollati e carenti, se non del tutto privi, di strumentazioni (non solo per i bit, ma anche per gli atomi) adeguate ai tempi e allo stato delle conoscenze.

Scuole Italiane un crollo ogni 3 giorni – scuole24ore.it

Più in generale, la socialità è innegabilmente un prerequisito per imparare davvero e in modo significativo e negoziato, ma per essere efficace deve prevedere anche buon tempo, passato con altre persone in posti accoglienti. Anche le più potenti e lucide performance didattiche dei docenti non possono compensare edifici fatiscenti, organizzazione confusa e logistica approssimativa. La scuola pubblica che ci ha portati fuori dal fango millenario, ora ha edifici fatti di fango e temiamo che il processo si sia invertito.

Scuole di ogni ordine e degrado

Tra febbraio e settembre, in un Paese in emergenza e che davvero mirasse alla salute intesa come benessere psico-fisico, ci sarebbe stato perfino il tempo di demolire gli edifici scolastici peggiori e ricostruirli. E invece rischiamo di impor(ce)li ancora uguali: brutti e inadeguati. Secondo le ipotesi più grottesche, i ragazzi potrebbero essere costretti a seguire le lezioni da casa a gruppi alternati; orizzonte tra azzeccagarbugli e specialisti del gioco delle tre carte, che ormai non salverebbe nemmeno la forma, figuriamoci la sostanza!

Se anni di progetti sugli ambienti di apprendimento sfociassero in questo, sarebbe davvero una sconfitta – di nuovo, professionale e civile – globale definitiva.

Progetto scuola secondaria di Benga Parish Malawi

Lasciamo pertanto ogni nostalgia paternalista agli intellettuali laureati che esprimono giudizi apocalittici ed apodittici sul presente e sul futuro sulla base della propria esperienza personale, passata e passatista.

Apprestiamoci piuttosto a una riflessione molto articolata e a una rifondazione molto profonda, che non si nasconda nulla e sappia davvero consentire alla scuola di svolgere di nuovo il suo compito, contribuire al pieno ed equo sviluppo umano.

Dario Zucchini e Marco Guastavigna

P.S.: a proposito dell’edilizia scolastica, riportiamo una piccola parte del “Documento tecnico sull’ipotesi di rimodulazione delle misure contenitive nel settore scolastico“, uscito poche ore dopo il nostro articolo (pag. 9). Le evidenziazioni sono nostre, ed hanno valore di commento.

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