La risocializzazione carceraria del terzo millennio, non senza problemi e contraddizioni,  sembra contemplare le TIC e il web nel proprio destino, come luogo di aggregazione interna e esterna – con le famiglie, gli ex detenuti, la società intera – ma soprattutto quale modalità sempre più imprescindibile di accesso e circolazione dell’informazione. D’altronde,  in carcere più che mai il concetto di “comunità virtuale” ha l’occasione di sostanziarsi in un progetto autenticamente utile. Chi è “dentro”, attraverso la Rete aiuta chi sta “fuori” al confronto con il diverso, a conoscere, a interrogarsi, a non rimuovere – come avviene anche in altre situazioni di istituzionalizzazione, quali ad esempio i progetti della “Scuola in ospedale” legati all’utilizzo delle TIC. L’intervento che segue analizza alcune “buone pratiche” di valorizzazione delle TIC nell’ambito delle attività trattamentali carcerarie: il lavoro dentro e fuori il carcere, i corsi scolastici, le attività di formazione professionale, le iniziative culturali e ricreative. 

Il messaggio che giunge a noi è lo smascheramento del punto di vista tecnocentrico: la vera anima della Rete non alberga infatti nelle tecnologie ma nel desiderio degli individui a comunicare. A tal fine le persone si ingegnano a volte con sopraffina creatività, come a volte nei contesti carcerari, prescindendo per quanto possibile anche da una dotazione tecnica adeguata e dalla stessa presenza di connettività. E così come le TIC enfatizzano rischi e vantaggi dell’analogico, il carcere sembra enfatizzare rischi e vantaggi delle TIC stesse, poiché nei luoghi chiusi alcuni processi si accelerano e la loro gestione competente, pianificata e negoziata, diventa allora una necessità improrogabile.