”Ricerca e new economy Torino non è Detroit” – La ricetta di Zich: ”La partita si vince coi progetti”

Pubblicato su La Republica – edizione di Torino venerdì 10 maggio 2002

Pensa positivo? Pure troppo. Perché il professor Rodolfo Zich ti racconta il 2010, dice che il dopoFiat non esiste oppure è già iniziato da dieci anni, ma qualcuno non se n’è accorto. Perché star dietro alle sue idee, ai suoi progetti, il suo viaggio fra modelli che si chiamano Glasgow, Dortmund o Monaco non è facile, visto che l’oggi si chiama soprattutto Rivalta e Mirafiori. In ogni caso, ci proviamo: con un personaggio che ha inventato il nuovo Politecnico, disse no un paio di volte alla politica, e preferisce impegnarsi nella Fondazione Italianieuropei di D’Alema.

Per arrivare a una conclusione sacrosanta: smettiamo di pensare a Torino come ombelico del mondo o come area su cui si scatenano tutte le tempeste. Zich spiega dove, quando come e perché questa città può crescere: poi, si tratta di vincere la partita.

Professore, lo sviluppo è di destra o di sinistra?
«Alla pace sociale ci tengono tutti. Non ci si può dividere sulle logiche che creano sviluppo, e questa è anche la felice anomalia piemontese. Una certa unità della classe dirigente, una grande attenzione alle professionalità di alto livello sta dando buoni risultati».

Eppure certi irrazionali appelli, certi catastrofismi arrivano proprio dalla politica. Guardano solo al giorno dopo, o no?
«Sono lo specchio delle paure della gente, dell’ansia da cambiamento. Certi politici si limitano ad inseguire l’inconscio collettivo. Non c’è una città in Italia che stia subendo una trasformazione radicale come la nostra».

Certo. Ma se è un sociologo come Gallino ad avere queste paure, forse il discorso cambia.
«Dobbiamo distinguere fra le sacrosante preoccupazioni sul futuro della Fiat, e su un modo personale di reagire al cambiamento. Parliamo della Fiat: la progettazione, la ricerca, le intelligenze non sono sradicabili dalla città. Il corso di ingegneria dell’auto, il Politecnico non li potrà rubare nessuno. Il fatto è che vediamo tutti lo stesso film, ma ne diamo una lettura diversa».

Non si può sempre giocare in difesa, allora.
«Vent’anni fa lo spazio per un mercato era delimitato da confini precisi, con tempi razionalizzati. Oggi lo spazio tende all’infinito, il tempo tende a zero. C’è più competitività fra le aziende, fra le città. E anche questo è un fattore dinamico. Lo stesso indotto dell’auto non è più come una volta legato alla Fiat: in certi casi, più della metà della produzione finisce altrove».

Quindi Torino deve correre. Più stategie, più concorrenza e meno lamenti. L’incertezza del giorno dopo, però rimane.
«Io privilegio una visione di tipo globale, che non vuol dire globalizzazione. L’auto è in crisi ovunque, così come lo sviluppo, l’esplosione di altre attività. Il costo del lavoro è una variabile decisiva, specie se parliamo di lavoro non specializzato. Sono processi prevedibili e previsti, ai quali questa città non si è fatta trovare impreparata».

Non è Manchester, né Detroit.
«È Torino. Che non è più la città di una sola grande azienda, ma di una industria diffusa. Sarò ovvio, ma voglio ripetere che le grandi concentrazioni industriali creano dipendenza. Sono troppo legate alle curve, sempre più riavvicinate, alle logiche del mercato. Il paradosso della nostra area è questo: 25000 lavoratori della Fiat in crisi; 42000 posti vacanti nel settore della manodopera specializzata».

Non vorrà dire che…
«Non voglio dire quello, me ne guardo bene. Anche se una canalizzazione di forza lavoro verso altre attività non sarebbe un male per la città, per le sue imprese. Del resto, la stessa Fiat si è molto diversificata».

Ma qui abbiamo anche migliaia di ragazzi che preferiscono fare i baristi o i commessi. Nella culla del lavoro, c’è un rifiuto generalizzato: operaio è quasi una parolaccia.
«Premesso che questo piccolo boom dei consumi, dei locali e dei bar a Torino si spiega solo come una buona tenuta economica della città, rispondo: è vero, ci sono molti ragazzi che dicono: non voglio fare l’operaio come mio padre, preferisco portare i caffè e magari recuperare qualche lira suonando in un locale. Bisogna trovare il modo di spiegare loro che i tempi sono cambiati, in termini di fatica, di diritti, di stipendi».

Dove può crescere Torino?
«Nella sua dimensione internazionale, nell’Università, nella formazione di nuovi ruoli professionali. Ha il linguaggio e la sensibilità. Nelle comunicazioni e nella capacità di attirare nuovi investimenti e aziende, grazie anche all’alta velocità. Ragionare solo in termini di dopoFiat è statico. Lo sapete per esempio che il tessile a Torino impiega almeno dodicimila persone? E tessile non vuol dire vestiti, ma strumenti sanitari, sedili. Ci sono piccole imprese sorprendentemente ricche».

Gallino sostiene: non c’è una forza coagulante.
«In un sistema così complesso, un Direttorio non avrebbe senso. Per esempio c’è l’associazione Torino Internazionale, con dentro il Ministero e i privati, le banche e l’università, Giugiaro e la Fondazione Holden, la Gam e l’Ifil».

Proprio in un vostro documento, siete molto chiari. Punti di forza rispetto a città come Amburgo, Ginevra e Lione: potenziale innovativo, direzionalità economica. Punti deboli: contesto culturale, apertura internazionale.
«Che è poi il motivo per cui la Motorola è venuta a Torino per aprire il suo centro di ricerca e sviluppo. Sapeva semplicemente di trovare un terreno fertile. Attiriamo investimenti di qualità, grazie al nostro alto livello di tecnologia. E non si tratta solo di portare imprese qui, ma anche di attirare finanziatori».

Le risorse ci sono?
«Non siamo messi male. Ma è il sistema nel suo complesso che deve essere pronto all’innovazione».

Lei è ottimista sulla new economy, ma il fenomeno fa molta paura.
«La new economy non è la sbronza delle dot.com, le speculazioni. È la nuova società della conoscenza: non è solo hitech, ma è crescita, qualificazione del personale, velocità del cambiamento».

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