Dalle comunità virtuali alle comunità di pratiche

L’ultima parola in materia di comunità on line per ora è stata scritta da tre esperti di organizzazione aziendale, Wenger, Mcdermott e Snyder, individuando – con un termine di non facile traduzione – delle “comunità di pratiche”…

Hosting Web communities. Building relationships, increasing customer loyalty, and maintaining a comp
Titolo “Hosting Web communities. Building relationships, increasing customer loyalty, and maintaining a comp”
Autori Cliff Figallo
Editore John Wiley and sons
Pagine 448
Anno 1998
Prezzo 29,99 $


Cultivating communities of practice. A guide to managing knowledge.
Titolo “Cultivating communities of practice. A guide to managing knowledge.”
Autori Etienne Wenger, Richard Mcdermott, William M. Snyder
Editore Harvard business school press
Pagine 284
Anno 2002
Prezzo 29,95 $


Net gain. Creare nuovi mercati con Internet.
Titolo “Net gain. Creare nuovi mercati con Internet.”
Autori John Hagel, Arthur G. Armstrong
Editore Etas libri
Pagine 256
Anno 1998
Prezzo 18,08 €


Net worth. Come cambiano I mercati quando i clienti definiscono le regole.
Titolo “Net worth. Come cambiano I mercati quando i clienti definiscono le regole.”
Autori John Hagel, Marc Singer
Editore Apogeo
Pagine 279
Anno 2001
Prezzo 20,14 €


L’ultima parola in materia di comunità on line per ora è stata scritta da tre esperti di organizzazione aziendale, Wenger, Mcdermott e Snyder, individuando – con un termine di non facile traduzione – delle “comunità di pratiche”, cioè delle comunità finalizzate al raggiungimento di un obiettivo pratico, usate dalle aziende per formare e gestire i gruppi di lavoro distribuiti in sedi diverse o comprendenti elementi esterni, come partner, fornitori o clienti.

Il dibattito su questo campo iniziò nel 1997, con Net gain di Hagel e Armstrong, secondo cui, le comunità virtuali avrebbero spostato le curve ben note di domanda e offerta dell’economia classica, dando più potere agli utenti in cambio della cessione alle aziende dei loro dati personali. Vendimi il tuo profilo e i tuoi gusti e, se sei organizzato in una comunità virtuale, la Rete ti regalerà potere di acquisto.

L’anno successivo arrivò subito, in un altro saggio, la polemica risposta di Cliff Figallo, un Web master con esperienza di gestione prima in The Well, la comunità celebrata da Howard Rheingold, e successivamente nelle aree di chat in America on line. Questo manager prevedeva molta fatica per pochi soldi, dato che le comunità virtuali avrebbero sempre avuto come patrimonio soltanto la ricchezza delle relazioni umane che erano in grado di creare, con ricavi nulli e spesso non monetizzabili.

Dopo un altro anno ancora, nel 1999, Hagel, questa volta insieme a Marc Singer, ribadì ancora le sue teorie in Net Worth. Eppure, i risultati economici concreti per i gestori delle comunità virtuali non si sono mai visti. Non molto tempo dopo Hagel fu costretto a capitolare e in un’intervista rilasciata al “New York Times” (13 maggio 2001) ammise che pressoché nessuna delle comunità basate su Web che erano state costituite fino ad allora era riuscita a “fare il salto” e a trasformarsi da semplice forum sociale in qualcosa di profittevole.

Nelle aziende, tuttavia, le comunità sono sempre esistite, con gruppi di lavoro permanenti o temporanei. Con i fenomeni legati alla globalizzazione, le imprese sono inoltre state costrette a servirsi sempre più di frequente di team di persone dislocate in sedi diverse, spesso molto lontane e a volte divise dai fusi orari. La progressiva integrazione della catena del valore, che ormai passa senza soluzione di continuità dai fornitori ai partner, ai distributori, e la maggiore attenzione verso il cliente, fidelizzato e coinvolto con strategie di Customer relationship management (Crm) hanno portato all’apertura di molte attività aziendali verso soggetti esterni. Internet, ha fatto il resto, determinando la riorganizzazione dei gruppi di lavoro e la creazione di “comunità distribuite” con un modello che Wenger e gli altri chiamano, appunto, “community of practice”. Il fenomeno interessa principalmente chi si occupa di Information and communication technology (Ict), come per esempio Hp e Sap, ma anche aziende di altri settori, come Daimler Chrysler, Toyota o Bosch oggi creano al loro interno delle comunità di questo tipo.

Tali comunità hanno come caratteristica principale la condivisione di una “pratica”, con un compito da svolgere e con degli obiettivi da perseguire. Per fare questo devono mettere in comune un dominio di conoscenza, con tecniche e strumenti di knowledge management, ma l’elemento più importante perché la conoscenza si trasformi in valore è dato dalla comunità che la utilizza. Il reale valore creato dalla comunità per l’azienda è dato non dai risultati concreti raggiunti, quanto piuttosto dalle nuove reti di relazioni che essa costruisce. Per questo è essenziale eliminare le forme tradizionali di gerarchia e favorire in tutti i modi gli scambi trasversali e orizzontali.
I rapporti, sempre secondo Communities of practice, vengono coltivati non solo on line, ma anche tramite riunioni face to face. Il ruolo di Internet è comunque essenziale; le comunicazioni asincrone, per esempio, facilitano gli interventi e la partecipazione anche di chi ha problemi di lingua o non riesce a esprimersi con efficacia in altre situazioni.

La cosa più difficile resta coinvolgere i clienti, ai quali occorre offrire dei reali vantaggi. Lavorare con le comunità, quindi, non solo impone alle aziende di eliminare le tradizionali organizzazioni a piramide, ma richiede uno sforzo ancora maggiore, fino ad “anteporre gli interessi dei clienti a quelli dell’azienda”. Una tesi, questa, non troppo diversa da quella di un altro testo in cui si parla in una di queste schede di Dschola, il Cluetrain manifesto. Il prezzo da pagare per chi non riesce ad adeguarsi a queste nuove esigenze è la perdita della propria fetta di mercato, a favore della concorrenza.

(Fabio Metitieri)